Valutare e premiare i docenti. Sì o no?
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Walter Moro, presidente del Cidi di Milano, intervista il professor Daniele Checchi, preside della Facoltà di Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano ed esperto di problematiche relative alla valutazione.
Walter Moro: In base agli studi e alle ricerche da Lei condotti, gli insegnanti sono disponibili a farsi valutare? Se sì, a quali condizioni? In quale contesto? E perché un insegnante dovrebbe essere disponibile a farsi valutare?
Daniele Checchi: Per rispondere a questa domanda l’unica strada è quella di chiedere ai diretti interessati. Da un’indagine svolta su un campione rappresentativo di docenti in Emilia e in Trentino sono emersi atteggiamenti abbastanza diversificati. Da un parte vi era una quota maggioritaria di docenti convinti che le politiche retributive attuali non premino le capacità degli insegnanti e che pertanto si esprimeva a favore di una possibilità di differenziazione dei livelli retributivi. A questi si affiancava una quota di circa un terzo fortemente contraria a qualunque ipotesi di differenziazione. E infine il terzo restante era indifferente o indeciso rispetto alla questione.
Osservando i dati sulle differenze effettive di retribuzione nella scuola tutti sono concordi con il ritenere che la componente di differenziazione legata principalmente ai progetti speciali sia troppo bassa per rappresentare un reale incentivo perché gli insegnanti si impegnino maggiormente. Ma non vi è consenso, specialmente con le rappresentanze sindacali, su quanta debba essere la componente incentivante, e a maggior ragione a quali dimensioni essa possa essere legata.
Nella pratica concreta di molti sistemi stipendiali (incluso quello italiano) viene premiata fondamentalmente l’anzianità di servizio. Non è questo un principio irragionevole, perché si presuppone che un docente più anziano abbia accumulato più esperienza; tuttavia egli può anche essere più demotivato e “burned out” e quindi non risultare necessariamente colui che dà energie propositive e innovative nel processo.
WM: Lei è d’accordo sul fatto che la questione del “merito” vada distinta dall’aspetto della valutazione dei risultati di apprendimento degli studenti conseguiti in una determinata realtà scolastica (questa richiederebbe una valutazione di team, per esempio del consiglio di classe) e vada inoltre distinta dalla valutazione del repertorio delle competenze professionali individualmente possedute dall’insegnante?
DC: Ci sono diversi aspetti da tenere separati. In primo luogo occorre chiarire quale sia l’obiettivo di una valutazione. Si può voler valutare il lavoro degli insegnanti per ragioni di equità sociale, volendo/dovendo rendere conto delle risorse investite. Oppure si può puntare alla valutazione come strumento di incentivazione, ritenendo, a torto o a ragione, che i lavoratori impegnati nella scuola non abbiano una performance adeguata rispetto alle risorse impiegate. Queste sono due prospettive molto diverse.
Per quanto riguarda il discorso relativo all’incentivazione – che significa fornire motivazioni economiche affinché le persone diano il loro meglio – occorre stabilire dei meccanismi adeguati che non creino “incentivi distorti”. Occorre cioè, in primo luogo, decidere cosa gli insegnanti debbano fare. Normalmente il desiderio è quello che si impegnino, mettendo in campo capacità e competenze personali e professionali, affinché tutti gli alunni – specie quelli con i livelli di partenza e di apprendimento più bassi – riescano a migliorare. È però difficile scorporare il contributo del singolo insegnante, poiché il risultato dell’apprendimento è normalmente l’effetto congiunto di competenze acquisite non disciplinarmente ma interdisciplinarmente, se non addirittura di competenze non curricolari. Basti pensare al caso dell’alunno che sbaglia un test di matematica o scienze perché non comprende l’enunciato della domanda: quali apprendimenti si stanno misurando in quel caso? e chi ne è responsabile?
Per questo ritengo che abbia maggior senso percorrere la strada della valutazione degli insegnanti come gruppo, eventualmente permettendo che il gruppo stesso possa ridistribuirsi meriti o demeriti al proprio interno con modalità che i docenti scelgano liberamente. E infatti alcune esperienze estere di introduzione di sistemi incentivanti legati agli apprendimenti hanno preso il gruppo degli insegnanti come unità di riferimento sia per la valutazione che per l’incentivazione. Anche perché andare invece a premiare il singolo insegnante rischia di creare una sorta di effetto boomerang, rompendo il clima di cooperazione pre-esistente nel gruppo. Non è forse un caso se il famoso “concorsone” Berlinguer – che aveva posto una soglia massima di persone promuovibili – abbia incontrato una reazione tanto negativa. Molti docenti infatti si chiedevano per quale ragione non a tutti fosse stata garantita l’opportunità di essere premiati. È dunque importante evitare che valutazione e incentivazione rompano un clima normalmente cooperativo che esiste in molti consigli di classe, anche se questo non significa rinunciare a indirizzare gli insegnanti in modo opportuno.
Vi è anche un altro rischio di effetto boomerang. Se utilizziamo modelli valutativi mono-dimensionali (per esempio rispondere in modo corretto a dei test), si rischia di ottenere come risultato che gli insegnanti si impegnino esclusivamente nel miglioramento degli indicatori rispetto ai quali verranno valutati. L’ideale sarebbe ottenere una valutazione che tenga conto delle varie dimensioni del processo di apprendimento, non tutte rilevabili facilmente attraverso test. È anche vero però che con troppi indicatori si rischia di non valutare nulla, perché a quel punto l’esito della valutazione dipende dal peso che viene attribuito alle singole dimensioni.
Se poi si dubita della possibilità di poter raggiungere qualunque dimensione quantitativa, si finisce con lo scivolare nella “valutazione dei pari”, che è forse il miglior metodo di valutazione, ma nel contempo è anche il più lungo e costoso senza essere maggiormente oggettivo (in quanto dipende strettamente dalla scelta dei valutatori).
WM: Rispetto a quanto finora detto, posso chiederLe come mai la sperimentazione Gelmini sulla valutazione del merito degli insegnanti non riesca a decollare?
DC: Tutti i processi valutativi difficilmente si possono attuare con il consenso unanime di tutti i valutati, ma non è opportuno nemmeno calarli dall’alto. C’è stata una evidente preferenza per l’impatto mediatico a scapito di una oggettiva sottovalutazione dell’impatto psicologico che questa proposta creava nelle scuole, chiamate a candidarsi per partecipare alla sperimentazione. Se infatti esiste sicuramente una quota di docenti che sostiene l’idea che vada premiato il merito, esiste un altrettanto legittimo desiderio degli insegnanti di potersi legittimamente esprimere sulle modalità di valutazione del merito.
È apprezzabile che il Ministero sia partito con le sperimentazioni piuttosto che estendere immediatamente alla scuola lo stesso schema ed è altrettanto positivo che siano state studiate soluzioni differenziate. Il problema mi sembra piuttosto quello di non aver adeguatamente coinvolto le rappresentanze dei docenti nel disegno della sperimentazione. Sarebbe stato diverso presentarsi al mondo della scuola provando a costruire una convergenza su un protocollo condiviso da almeno una quota maggioritaria delle associazioni sindacali e professionali. Ciò ovviamente espone al rischio di un processo lungo e di un annacquamento del principio a cui il Ministero voleva ispirarsi; però sicuramente la sperimentazione non avrebbe incassato una sostanziale bocciatura da parte dei docenti, come invece sembra essere avvenuto.
Walter Moro